mercoledì 22 novembre 2017

Recensione "Gli eredi di Atlantide" di Camerini e Gualchierotti

Recensione "Gli eredi di Atlantide" di Camerini e Gualchierotti


Il romanzo “Gli eredi di Atlantide” di Camerini e Gualchierotti, per Edizioni Il Ciliegio, narra, come è intuibile, del Cataclisma che si abbatte su Atlantide, la gloriosa città dei Cinque Anelli, e della fuga di un gruppo di sopravvissuti, guidati dal valoroso Adhon, alla ricerca di una nuova terra dove rifondare la civiltà di Atlantide, distrutta dal crollo della stella Ninmah. In quella che si configura una vera e propria odissea, Adhon e i suoi dovranno affrontare numerosi pericoli, incalzati da un nemico che non sanno di avere, incontreranno popoli e culture diverse, sempre cercando di tenere a mente gli insegnamenti del saggio Alkmeones. Si tratta di un gran romanzo corale, scritto a quattro mani, dal respiro decisamente epico.
“Questi sono tempi in cui gli stessi uomini consacrati agli Dei dimenticano di osservarne i segni: i sacerdoti sono stati sostituiti dagli eunuchi, e trascurano i loro doveri per stringere nelle mani inanellate calici dorati o corpi di giovani schiavi. Il culto è diventata una pantomima di incensi e falsi oracoli. Troppo spazio è stato dato agli dei stranieri e oggi il popolo preferisce riti misteriosi e incomprensibili alla pura fede dei padri.”
Il romanzo inizia con un grande prologo, in cui gli autori narrano la caduta di Atlantide, la fine di un mito e di una civiltà intera, spazzata via dalla cecità dei suoi governanti, troppo presi dai fasti e dal lusso che non dal prestare ascolto ai segni del cielo. Seguono una ventina di capitoli, piuttosto consistenti, che narrano il girovagare di Adhon e dei suoi a bordo della Dysmacos, alla ricerca di una nuova terra, fino al (decisamente breve) epilogo, che lascia presupporre nuove avventure. Per quanto un seguito sia possibile, il romanzo è comunque concluso e tutte le varie sottotrame trovano risoluzione alla fine.

Il romanzo è, quindi, un grande viaggio, come nella più antica tradizione omerica, a cui si accompagnano la scoperta di nuovi mondi e un progressivo apprendimento da parte di Adhon e dei suoi. Viaggio nello spazio, quindi, ma anche nell’animo dei personaggi, che hanno modo di crescere, imparare e evolvere. Su tutto aleggia la fede in Poseidone, signore dei mari e protettore di Atlantide, e la speranza che abbia un futuro in serbo per tutti loro.
“Penso che il nostro viaggio non sia stato solo un’avventura mirata alla protezione dell’Occhio, ma anche una prova, come una cerimonia d’iniziazione tesa a fare accrescere la nostra intelligenza e sapienza. […] Alkmeones diceva che siamo come uomini chiusi in una stanza, che vedono solo luci, forme, colori e oggetti all’interno di quell’ambiente, mentre fuori c’è un mondo che loro ignorano. In questi mesi, anche se un poco, noi abbiamo imparato a conoscerlo, e forse siamo cresciuti”.
Lo stile del romanzo è molto epico, il vocabolario curato, le frasi lunghe, spesso pompose, infarcite di aggettivi descrittivi e di termini atti a enfatizzare. È uno stile che ho trovato adatto all’atmosfera generale del romanzo, allo spirito quasi mitologico che lo permea, con i continui riferimenti agli Dei, al fato che tutto comanda, alla missione salvifica del popolo di Atlantide. Certo, gli amanti dei periodi brevi e dello stile asciutto, alla Hemingway, storceranno il naso, ma credo che ogni storia abbia bisogno della sua voce per essere raccontata, e Camerini e Gualcheriotti hanno fatto un’ottima scelta, anche se, per gusto personale, a volte qualche periodo o monologo li avrei sfoltiti un po’.
“La consapevolezza che la fine imminente del loro viaggio segnava anche la fine definitiva di tutto ciò che restava di Atlantide. Avrebbero vissuto lì, in quelle terre fertili ma selvagge, pochi superstiti di un impero maestoso, fino alla definitiva estinzione del loro sangue? E suo figlio, cosa avrebbe avuto in quella landa desolata? Possibile che gli dei avessero deciso che la gloria di Atlantide terminasse così, senza lasciare neppure un ricordo della sua fama, come sabbia che scorre tra le dita?”
“Gli eredi di Atlantide” è un romanzo epico, ad ampio respiro, che segue non soltanto le avventure di Adhon e dei suoi compagni, ma anche dell’intero popolo di Atlantide, segnando il destino di una civiltà intera. È una storia di decadenza, sicuramente, perché i regnanti della città dei Cinque Anelli si sono dimostrati miopi, e forse anche tronfi, certi di essere i migliori e i prediletti dagli Dei, salvo ritrovarsi di fronte a un’amara verità. Di questa decadenza, sono Adhon e i suoi a farne le spese. È però anche una storia di rinascita, di risalita, di salvezza, che avviene tramite il viaggio, un tema classico, tipico di molti romanzi, che permette ai protagonisti di vivere una serie di esperienze, fare incontri, aprire la mente, atti a migliorare se stessi. Adhon, un po’ come Holden Caufield, lascia la sua casa, alla ricerca della sua strada e del suo posto nel mondo, e se Holden torna a casa, Adhon e il suo popolo ne troveranno una nuova, riscoprendo le loro vere e pure origini che i fasti atlantidei avevano oscurato.

“Gli eredi di Atlantide” è una storia d’avventura, come l’Odissea, con nuove terre da scoprire, nuovi popoli e città, nuovi costumi (anche diversi da quelli di Atlantide), è una storia di difficoltà, di conflitti, di incomprensioni e vendette; una trama ricca di avvenimenti, anche se forse, proprio per l’impostazione molto classica del romanzo, è abbastanza scontata in sé, complice anche il famoso destino che pare segnare la rotta di Adhon e dei suoi. Ben costruiti i personaggi, soprattutto i tre principali (Adhon, Tig-her e Sybillion), per quanto riconducibili a figure standard del fantasy avventuroso. Ho apprezzato molto Tig-her, il suo rizzare sempre la testa, il suo continuare ad andare avanti nonostante le ferite e le difficoltà, così pure le battute di Sybillion, che a volte hanno smorzato la tensione. Bianchi o neri i personaggi, buoni o cattivi, forse questo l’unico aspetto che non ho molto apprezzato, preferendo, per gusto personale, dei personaggi alla George Martin, con le loro molteplici sfumature. Ma più che parlare di difetto, credo sia una scelta legata al tipo di storia epica narrata dagli autori, dove i buoni sono oggettivamente dei valorosi eroi (simbolo forse di un tempo perduto) e i cattivi sono esseri rancorosi e spregevoli. Questo non toglie comunque valore a una bella epopea che appassionerà soprattutto gli amanti della narrativa avventurosa e eroica, pronti a navigare con la Dysmacos nelle pericolose acque del futuro.


(Mia recensione originariamente pubblicata sul sito "Le lande incantate)


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